Libri di Giorgio Valentinuzzi
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Rassegna & Lettori: Incontri che Crescono
a cura di Giorgio Valentinuzzi

 

Una storia, la solita vecchia storia - Parte VI

Questa serie di volumi, ed in particolare quest'ultimo ovvero il sesto, non sono un semplice MEMOIR ma una vera e propria montagna russa emotiva che ci fa rivivere gli anni dell'autore.
Il volume offre una carrellata di irresistibili aneddoti che ironizzano sulla grossolanità, sfrontatezza ed egocentrismo della vita di tutti i giorni e sulle persone stravaganti, assurde e in qualche caso, secondo lo scrittore maleducate, che popolano la nostra quotidianità.
Un viaggio nella vita che supera il perbenismo, toccando temi provocatori con onestà disarmante. In pratica racconti senza filtri che non hanno paura di essere crudi o scomodi.
Ma non mancano racconti irresistibili che ricordano quanto la vita possa essere assurda e nello stesso tempo molto esilarante.
Buffi, comici e alquanto spassosi sono gli aneddoti che riguardano Edda!
Inoltre l'inserimento di una lunga "Poesia di gennaio" è un'idea ingegnosa che arricchisce il tomo stesso.
E' in pratica un libro che non vuole giudicare, non vuol essere giudicato ma palesare le esperienze più estreme e le ferite profonde da cui nasce una semplice e luminosa verità:
LA QUOTIDIANITA?
In sostanza è un'esortazione a recuperare la propria vita e la propria storia, accettandone tutte le sfumature, sia positive che negative, sfumature che ci hanno trasformanti in quello che oggi siamo!!!!
Grazie Giorgio di averci dato la possibilità di leggerlo.

Tiziana


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Il Solutore Linguistico

Un libro scritto, composto, revisionato e pubblicato
da Giorgio Valentinuzzi


Scrivere è solo l’inizio.
È ciò che fanno molti: scrivono. Ma pochi portano fino in fondo ciò che hanno iniziato. Meno ancora sono quelli che scrivono senza affanno, senza considerarlo una fatica, ma una necessità lucida,
un gesto naturale e progettuale al tempo stesso. Il Solutore
Linguistico è questo: non solo un libro, ma un sistema di senso, riscritto, perfezionato e pubblicato con l'accuratezza di chi padroneggia ogni fase del processo.

Questo diciottesimo volume di Giorgio Valentinuzzi
non nasce da una moda né da un’urgenza di pubblicazione: è un progetto cominciato nel 1982-'83 e ricomposto oggi, nel 2025, grazie alla consapevolezza e agli strumenti d'un autore che sa lavorare nel tempo lungo, e nella stratificazione. Qui, la lingua non è solo mezzo ma materia; il senso non è mai unico, e l’ambiguità è un valore. Valentinuzzi non si limita a “consegnare un testo”.
Lavora su ogni virgola, imposta la struttura, impagina, sceglie il carattere tipografico, crea la copertina, deposita l’opera, la pubblica, la rende disponibile su più canali, e, se serve, si sporca le mani anche con la stampa vera, quella dei torchi o delle tipografie.

È per questo che parlare solo di “scrittore” è riduttivo. Lui è un compositore integrale. Un editore di sé stesso.
Un autore che si prende la responsabilità della forma, del contenuto e del destino del proprio libro.

E mentre altri parlano di “fatiche letterarie”, ostentando numeri e patenti di autorialità, Giorgio continua a scrivere, limare, rifinire, pubblicare. Non per dovere, ma per coerenza con ciò che è
sempre stato: un uomo che pensa, crea e non s'accontenta di lasciare opere a metà.

Con Il Solutore Linguistico, Giorgio Valentinuzzi non aggiunge semplicemente un altro titolo alla sua lista., ma una dichiarazione d’intenti.
Chiara, compatta, senza concessioni: la lingua, se ben maneggiata, risolve più di quanto complichi.

Ecco perché il Solutore esiste e perché questo libro, come gli altri, parla da sé.

Buona lettura,
Giorgio Valentinuzzi

 

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Titolo: Cantico dei calici - poesie conviviali
Autore: Giorgio Valentinuzzi - I Contemporanei 3000 (ed. 2024)
di Eugenio Fontanini

Valentinuzzi mette il tavolo in mezzo alla stanza e ci invita a sedere: vino, fumo, amici, sante e bestemmie, la vita vera che pulsa. Cantico dei calici è un libro di poesie “sporche” nel senso buono: vissute, respirate, nate tra le tre e le quattro del mattino, quando la città tace e la memoria parla. C’è la materia concreta del quotidiano (alberghi, officine, osterie), c’è il corpo con tutta la sua grazia e le sue goffaggini, c’è la morte che non fa scenate ma resta in fondo al bicchiere.

Mi ha colpito il ritmo: a tratti cantabile, a tratti sincopato, sempre franco. L’autore alterna lampi lirici a rasoiata narrativa, infila friulanismi, ricordi, nomi propri, e fa della poesia un taccuino sanguigno. Non è manierismo: è responsabilità del dire. Qui la lingua “fa cose”, non posa. E quando alza il volume-tra eros, amicizia, lutti, sbandate-non è provocazione: è fedeltà al reale.  Libro per chi ama la poesia che non chiede permesso. Si chiude una pagina e si ha voglia di telefonare a un amico, versare qualcosa, rimettersi a vivere. Io l’ho letto così: con riconoscenza. Eugenio

 

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La giostra del sole - di Giorgio Valentinuzzi

recensione di Eugenio Fontanini

C’è un fiume che non smette di parlare e una ruota che non smette di girare: La giostra del sole è la cronaca cantata di una stirpe, un lessico familiare in friulano, magiaro e memoria, impaginato come un romanzo d’epica minuta. Paron mette il fuoco iniziale: idea, soggetto, ricordi, e Valentinuzzi orchestra tutto il resto: redazione, revisione, elaborazione dei testi, impaginazione e “respiri” tipografici. Si sente: il libro è insieme voce e montaggio, canto e officina. Il racconto si apre con un nome pronunciato di traverso, Phether Prohnk (poi “Paron” per gli automatismi dell’anagrafe): bisnonno zingaro, nato nell’Ottocento, fuoco magnetico della saga. A cascata arrivano Ghosmhâr, Guhann, mogli, figlie, capifamiglia; e con loro un villaggio intero - kurtillhàtt - che lavora, prega, danza, ride, contrabbanda. La genealogia non è sfoggio: è una mappa d’orientamento dentro il tempo e la lingua. Il libro ha una doppia colonna sonora: da una parte l’oralità rituale (komthe, la narrazione dei saggi), dall’altra la meccanica del mondo. L’invenzione più potente è quella dei mulini a rochs che trainano le barche controcorrente: un congegno descritto con precisione artigiana (perni, fusi, chaveze, sganci, chiuse), ma anche con la meraviglia di chi sa che la tecnologia è mito solidificato. Qui la ruota “dà un senso al tempo, grande imbroglione”, e lo doma abbassando una paratoia; è quasi una metafora dell’atto di raccontare: prendere il flusso, rallentarlo, farlo lavorare per noi. Intorno, la storia grande bussa senza fare troppo rumore: Napoleone che passeggia in borghese sulle strade romane riemerse, le spie che parlano in sanscrito, confini che cambiano, eserciti che si travestono, ghetti ebraici fondati e ricostruiti dopo i terremoti, Uscocchi che devastano e poi diventano vicini di lavoro. Il romanzo tiene insieme la micrologia del gesto (tagliare la polenta con lo spago, incidere una preghiera sul tavoliere) e le placche tettoniche della geopolitica. C’è anche l’altra faccia del reale: il Komède Štrhôlik, i riti apotropaici, la tharhabane con le pietre bianche e nere lanciate a disegnare costellazioni a terra; un gigante sordomuto che fa da oracolo; ninfe malefiche dei corsi d’acqua, Haghaniš, che rapiscono i bambini sani e restituiscono grêphjes; danze cangianti, gare su corde tese fra querce e cerchi di fuoco. Il paganesimo popolare non è folklore pittoresco: è una tecnologia della mente per gestire paura, desiderio, lutto. Al centro, come un perno, c’è il paesaggio: il Flhunn (Stella) con le sue correnti e la sua fauna, la selva con cataloghi botanici che hanno il ritmo di una litania (orchidee, salici, ninfee, serpenti, aironi, carpe), le strade in terrapieno, le canne garghanjs, i cedri del Libano. Sono pagine che odorano di erbe macerate nell’olio di San Giovanni e di legno bagnato, che ricordano quanto l’ecologia sia prima di tutto una grammatica dell’attenzione.

Lingua: qui sta uno dei piaceri maggiori. La prosa integra friulanismi, termini tecnici, reliquie longobarde, ungherismi; ma non per esotismo. Ogni parola serve a una funzione: nominare per salvare. Dove molti romanzi “ambientano”, questo romanzo impasta: lessico come geografia, sintassi come argine. L’effetto per il lettore è doppio: straniamento (buono) e familiarità (più buona ancora). Scelte d’autore: Paron pensa per quadri e “stanze” narrative; Valentinuzzi, nella sua veste di realizzatore editoriale, calibra ritmo, aria, impaginazione (si sente l’orecchio di chi lavora anche con grafica e tipografia). Non c’è estetismo; c’è la pulizia di chi sa cosa far vedere e quando. Se devo dire perché consigliarlo: perché restituisce dignità epica alle vite senza annuario; perché mostra che le comunità si tengono con lavoro, rito, invenzione; perché ci ricorda che la storia locale è la più universale, se scritta senza paura del dettaglio. Finita l’ultima pagina, rimane addosso il rumore della ruota e il desiderio infantile di risalire ancora un tratto di fiume. Io l’ho letta così: con gratitudine.

Eugenio

 

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